Luis
Eduardo Guerra era uno dei leader di San José de Apartadó,
una «Comunità di
pace». Il 21 febbraio è stato massacrato insieme ad altre 8
persone.
Dall'esercito.
Guido
Piccoli
Fonte: Il
Manifesto
20 marzo
2005
«Che senso hanno, signori, tante riunioni e tanti eventi
mentre ci stanno
ammazzando? Che senso hanno gli hotel di lusso, gli esperti
delle Ong e tanti
intellettuali, che senso ha tutto ciò per noi che abbiamo così
bisogno che ci
aiutiate a non morire» (dal discorso di Luis Eduardo Guerra al
Foro Sociale
delle Americhe svoltosi a Quito, nel luglio 2004)
Gli dicono che lo
stanno
cercando, lo scongiurano di nascondersi. La mattina del 21
febbraio scorso,
Luis Eduardo Guerra decide di non sfuggire alla violenza, che
l'ha accompagnato
fin dalla nascita, trentacinque anni fa. Non vuole abbandonare
la sua nuova
compagna Bellanira e Deiner, il figlio undicenne che zoppica
dall'esplosione,
nell'agosto scorso, di una granata abbandonata dall'esercito.
E' uno dei leader
più riconosciuti di San José de Apartadò. Forse si sente
protetto dalla
solidarietà ricevuta negli Stati uniti e in vari paesi
europei, tra cui
l'Italia dagli amici di Narni e degli altri gruppi che formano
la Rete di
solidarietà con la Comunità di pace. O forse non immagina che
vogliano
ammazzarlo. Si sbaglia. Luis Eduardo, Bellanira e Deiner
vengono intercettati
vicino al rio Mulatos, portati sul greto del fiume e squartati
con i machete
fino ad essere decapitati. Poco lontano un altro gruppo entra
sparando nella
casa di Alfonso Bolivar, membro della Comunità di pace del suo
villaggio.
L'uomo riesce a scappare. Scappa anche un contadino di nome
Alejandro che sta
percorrendo un sentiero vicino: una pallottola lo ferisce alla
schiena, viene
raggiunto e finito. Alfonso potrebbe salvarsi, ma quando sente
le urla della
moglie Sandra Milena, che chiede pietà per i suoi figli, torna
indietro a
morire con la sua famiglia. I machete infieriscono sul suo
corpo e quello di
Sandra. Nessuna pietà neppure per Natalia di quattro anni e
per Santiago di
solo 18 mesi. I due massacri hanno dei testimoni, il
fratellastro di Luis
Eduardo e un vicino di Alfonso.
La risposta
dell'esercito
Sono loro che
raccontano
una verità spaventosa: stavolta i carnefici non sono i
tagliateste delle
Autodefensas Unidas, i principali protagonisti da vent'anni
della macelleria
colombiana, ma i militari del 33° battaglione di
controguerriglia
dell'esercito. Da quattro giorni l'intera regione è sorvolata
da elicotteri ed
aerei bombardieri e invasa dai reparti della 17° brigata di
stanza nella base
di Carepa. E' la risposta all'imboscata nella valle della
Llorona di una
settimana prima del V° fronte delle Farc, costata la vita a
sedici soldati.
Com'è successo tante altre volte, sono i civili indifesi a
fare da vittime
sacrificali delle rappresaglie.
Da quando, nel 1997,
gli
sfollati di San José de Apartadò si sono proclamati Comunità
di pace,
rifiutandosi di collaborare con tutti i protagonisti della
guerra, compreso
l'esercito, molti generali li considerano alla stregua dei
ribelli. Lo stesso
presidente Alvaro Uribe, nel corso di un vertice tenuto nel
maggio scorso nella
vicina Apartadò, sostenne che San José fosse in realtà un
«corridoio» usato
dalle Farc. Noncurante delle sentenze della Commissione
interamericana dei
diritti umani e della stessa corte costituzionale colombiana
che hanno, in più
occasioni, ingiunto allo stato colombiano di «offrire una
protezione speciale»
alla Comunità di San José, in quell'occasione, Uribe invitò la
polizia ad arrestare,
se necessario, i suoi dirigenti e a deportare i volontari che
li proteggono,
prima di tutti quelli delle Peace Brigades.
Quando a San José si
viene a sapere del massacro, partono gli inviti a bloccare la
carneficina, gli
appelli alle organizzazioni umanitarie in Colombia e nel
mondo. Per recuperare
i corpi delle vittime viene organizzata una spedizione di
quasi duecento
persone, accompagnata da sacerdoti, cooperanti internazionali
e l'ex sindaca di
Apartadò, Gloria Cuartas. La comitiva si dirige a Mulatos,
nella fattoria di
Alfonso, affollata di vicini che aspettano l'arrivo dei
funzionari giudiziari.
E' il 25 febbraio. Il giorno dopo ci si fa guidare dai cerchi
concentrici degli
avvoltoi, per scoprire i cadaveri straziati di Luis Eduardo e
dei suoi. All'orrore
si aggiunge la rabbia. In zona vagano ancora reparti dei
soldati. A differenza
di altre volte, il loro atteggiamento è sfrontato. C'è chi,
ironizzando sul
fetore che satura la zona, sostiene che ci sia «puzza di
guerrigliero morto».
Qualcun altro accusa il gruppo di essere arrivato fino a lì
dietro ordine delle
Farc. Vengono prese foto e rivolte minacce ai contadini. Un
soldato brandisce
come un trofeo un machete trovato sul greto del fiume e,
nonostante le
proteste, lo pulisce con la sabbia cancellando le tracce di
sangue. Più che
un'ammissione di colpa, l'atteggiamento dei militari equivale
ad una
rivendicazione.
Di diverso tono sono
ovviamente le risposte che le autorità danno pubblicamente a
Gloria Cuartas,
agli avvocati della Corporación Jurídica Libertad e al padre
gesuita Javier
Giraldo che denunciano la responsabilità della XVII° brigata
nel massacro:
mentre il comandante dell'esercito, Reinaldo Castellanos,
definisce queste
accuse «temerarie», il ministro della difesa, Jorge Alberto
Uribe assicura una
certa «tranquillità della forza pubblica, visto la sua
estraneità al crimine».
Da tutto il mondo piovono proteste indignate contro il governo
Uribe che, come
minimo, non ha fatto nulla per difendere la Comunità di San
José. Oltre all'Onu
e l'Organizzazione degli stati americani, gli scrive una dura
lettera anche il
sindaco di Roma, Walter Veltroni. Da parte del governo di
Bogotà inizia
l'abituale fuoco di sbarramento, orchestrato dal
vice-presidente Francisco
Santos, ormai esercitato a recitare, nello staff di Uribe, i
ruoli più
patetici. Salta fuori il solito guerrigliero pentito, lasciato
ovviamente
anonimo, che racconta che Luis Eduardo sarebbe stato ammazzato
dalle Farc per
non avere più voluto che San José continuasse ad essere usato
dai ribelli «come
luogo di riposo e vacanza». L'assurda tesi viene fatta propria
dai mezzi di
comunicazione. Il 2 marzo arriva in zona una commissione
giudiziaria, che si
scontra però con un muro di silenzio: nessuno vuole parlare
con i giudici.
Neppure Gloria Cuartas che ricorda che «tutte le testimonianze
rese negli
ultimi otto anni sulle violazioni dei diritti umani sono
servite soltanto a
criminalizzare le vittime e non i carnefici».
Ancora più
dall'insediamento di Uribe, parlare di giustizia, in Colombia
è un eufemismo.
Sottoposta a minacce e ripulita da quasi tutti gli elementi
onesti, la
magistratura ha sempre assecondato il sodalizio tra i vertici
dell'esercito,
comandato negli anni scorsi nella regione di Urabà dal
generale Rito Alejo Del
Río, detto «El Pacificador» (al quale persino gli Usa avevano
negato il visto
d'ingresso per avere costituito gruppi paramilitari) e il
nucleo centrale delle
Auc, a capo dei quali c'erano Carlos Castaño e Salvatore
Mancuso. Oltre ad
intimidire i testi o ad accumulare inutilmente le loro
denunce, i giudici hanno
lasciato spesso filtrare le loro generalità, segnalandoli ai
killer statali e
parastatali.
Un massacro impunito
Dei duemila abitanti
di
San José, dal 1997 ne sono stati ammazzati 165, una ventina
dalle Farc e dell'Eln
e il resto da militari e paras. Non a caso, nel centro del
villaggio, cresce a
dismisura un monumento di mattoni con i nomi delle vittime e,
dietro le fila
delle baracche, il cimitero. Non solo tutti gli omicidi sono
rimasti impuniti:
come ricorda padre Javier Giraldo «in molti hanno pagato con
la morte la
fiducia nella giustizia». Per questo, la Comunità ha deciso di
rendere
testimonianza del massacro solo alla Commissione
interamericana dei diritti
umani, riunita il 14 marzo in Costarica. I giudici della
Fiscalia lasciano a
mani vuote San José. Sulla strada del ritorno sono attaccati a
colpi di mortai
e lanciarazzi, che uccidono un poliziotto di scorta e ne
feriscono altri tre.
L'agguato, che governo, esercito e giudici attribuiscono alle
Farc, corrobora
per i giornali la colpevolezza dei ribelli nell'uccisione di
Luis Eduardo e
degli altri 8. Da Bogotà Uribe tuona che «non può esserci un
solo centimetro
del territorio nazionale vietato alla forza pubblica».
Considerando la
«neutralità» una forma di complicità con la guerriglia, il
ministro della
difesa annuncia che verrà al più presto sanata l'anomalia di
San José e delle
altre comunità di pace esistenti, per lo più lungo la costa
del Pacifico.
Quando, il giorno dopo, l'esercito entra nelle stradine del
villaggio, i suoi
abitanti minacciano un nuovo esodo, rifiutandosi di «convivere
con i loro
assassini». E fanno un appello a tutte le voci libere del
mondo perché si
uniscano nel richiedere il rispetto per la popolazione civile.
Il braccio di ferro
tra
i contadini di San José e lo Stato colombiano chiede di
schierarsi. Impresa non
facile, ad esempio, per la chiesa. Per un padre Giraldo che
rischia ogni giorno
di trovare un sicario sulla sua strada, c'è il vescovo della
vicina Apartadò
che, in questi giorni, ci tiene a sottolineare il suo
«accompagnamento solo
pastorale» alla comunità ribelle. Ma l'ultima strage impone
anche a Bruxelles e
alle diplomazie europee presenti a Bogotà d'intervenire. Per
salvare altri
innocenti e per valutare che non sia il caso di sistemare
nella lista dei
«terroristi» colombiani anche gli squartatori e i loro
rispettabili mandanti e
conniventi.
E qui un altro link interessante:
http://radiomacondo.fm/2014/02/22/9-anos-de-la-masacre-en-san-jose-de-apartado/